Mi accusano spesso di essere "grande nella testa" e non hanno tutti i torti.
Quando penso a un qualche progetto, la mia mente parte e immagina le possibilità, i persorsi, le implicazioni, cosa può diventare dopo 5 o 10 anni e quali opportunità apre, ma soprattutto mi scatta la molla del... perchè no? Perchè non farlo? Proviamo!
E' come se nella mia testa sbocciassero, uno dietro l'altro, decine di fiori di loto, uno dopo l'altro, come in un cartone animato che rapidamente riempie la palude e la fa diventare un prato fiorito.
Il mio amico e maestro Stefan diceva: "Tutti guardano in su e vedono il cielo, alcuni riconoscono le stelle, pochi distinguono le costellazioni e solo qualcuno vede l'universo."
Mi sono domandato spesso da cosa dipenda questa mia attitudine e credo ci siano molte concause: genitori che mi hanno amato, l'amore è il primo ingrediente della crescita, mia mamma che mi ha sempre lasciato "trafficare" con costruzioni e bizzarrie: ero uno dei bambini privilegiati che avevano il Meccano.
Avendo fratelli più grandi che studiavano, li asoltavo rapito e sperimentavo le loro conoscenze, portavo a casa ramarri, per l'orrore di mia mamma che se ne trovò 30 in giro per casa, catturavo maggiolini e insetti, li uccidevo con l'etere e poi li coprivo di rame con una vasca da elettrolisi che mi ero costruito.
Leggevo avidamente il Corriere dei Piccoli e il secondo grande ingrediente credo sia la curiosità mista a fantasia: tutto mi incuriosiva, tutto mi sembrava degno di attenzione, di scoperta di sperimentazione e a pensarci ore a più di cinquant'anni mi domando con quale coraggio mi lasciassero fare.
In farmacia comperavo l'etere, l'acido solforico e quello cloridrico per l'elettrolisi (oggi quei farmacisti andrebbero in galera dritti per aver venduto sostanze pericolose a un bambino di sette anni) e in cantina avevo uno spazio mio, tutto mio, per i miei giochi e i miei esperimenti.
Avevo anche una "tana" sotto un tavolo chiuso con una tenda in cui immaginavo avventure e custodivo i miei tesori: rocchetti di legno usati, una cassettiera tutta a scomparti avuta da una merciaia che sostituì quella di legno con una in metallo e me la diede (ho un amore particolare per i cassettini a cento scomparti) e poi fantasticavo per ore.
E poi c'era la musica.
Già a Vigo di Fassa avevamo il grammofono in un magnifico mobile di legno con incastonata anche una vecchia radio, grammofono sostituito poi da un giradischi Lesa color caffelatte.
Mio papà da bravo veronese amava l'opera e ci portava di tanto in tanto all'Arena, dove mi addormentavo immancabilmente ma le vibrazioni arrivavano comunque. E poi strimpellava la chitarra che lo aveva salvato dal campo di concentramento e attorno a quello strumento sono nate tutte le nostre storie di musicisti: prima i due miei fratelli e poi io.
Quella chitarra è quella che portai a Londra nel mio primo viaggio da solo modificandone la "spalla" sinistra e creandoci uno sportello in cui tenere le cose che non volevo perdere...
Avere una band in casa e un padre che assecondò tutte le "follie" di mio fratello che voleva solo strumenti di prim'ordine è stato un imprinting decisivo e un esempio concreto: grande impegno, cura dei dettagli (la band aveva, manifesti, blocco dei contratti con carta intestata, prove meticolose tutte le settimane, furgone con grande scritta laterale, repertorio deciso a priori e massima disciplina sul palco) e prima come accompagnatore e addetto alla trascrizione dei testi, è "a orecchio" che ho imparato l'inglese, e poi come bassista, la musica è stata maestra di vita.
E' passata in secodo piano quando lo studio, la politica e la voglia di mettermi in gioco hanno preso il sopravvento ma è sempre rimasta lì, con una chitarra sempre pronta.
E quando alla conclusione di un ciclo professionale di grandi soddisfazioni, ho potuto di nuovo scegliere, la musica è tornata ad essere una delle priorità della mia vita: come dice Marina, tu appena sveglio senti della musica. Vero.
Uno zio gesuita è una risorsa non da poco, specialmente se è come era mio zio Gigi: prete per esigenze di fame familiare, brillante, generoso, caciarone, mitiche le sue barzellette, amante dei viaggi e delle chiacchiere filosofiche.
Non si poteva mai banalizzare una discussione con lui, ti insegnava ad affinare il ragionamento a valutare le ipotesi, a sintetizzare, ad astrarre a tenere in piedi castelli complessi con la sola capacità della logica.
E in casa portava libri, conoscenza, piacere per il sapere: e quello fu certamente il quarto ingrediente.
Passò due estati a tradurre la Summa Teologica di San Tommaso D'Acquino per conto di un editore e dato che frequentava la "Milano bene" dei Leone XIII e dei Conti Melzi aveva anche una grande predisposizione al "marketing" personale, che gli ammiravo ,con quell'eleganza da nobile decaduto ma furbacchione che mi ricorda tanto "Il Conte" di Alan Ford.
Mi fece amare la scrittura che fin dalle elementari è stata una mia grande risorsa e sia lui che mio padre avevano una calligrafia magnifica, figlia dei tempi in cui scrivere e poter studiare era un privilegio che andava trattato con rispetto.
Mio padre, maresciallo dei carabinieri, aveva tesori di cancelleria, matite rosse e blu, la carta speciale per le comunicazioni con la Nato, gil schedari, i libroni dei registri... : ancora oggi una cartoleria mi affascina quanto una ferramenta!
Con qualche parentesi distratta dalle esplosioni ormonali dell'adolescenza, ho sempre studiato con grande passione, di tutto, il sapere per il gusto di sapere, per il piacere della conoscenza. Non ho mai smesso di imparare.
Ero uno dei pochi "strambi" che frequentavano Scienze Politiche a Bologna negli anni del 18 politico e avevo tutti 30 sul libretto, assistevo alle lezioni di diritto Costituzionale e facevo ricerche comparate sulle costituzioni Statunitense e Jugoslava (30 e lode) e grandi dibattiti con Salvatore Sechi docente di Storia Contemporanea sul Cile, il ruolo della sinistra rivoluzionaria (30 e lode) che finivano a casa sua con gli altri quattro appassionati di discussione, a fare pastasciutta e riflessioni sul ruolo del sindacato nel favorire la controrivoluzione.
A sette esami dalla fine piantai lì tutto: non mi bastava sapere, volevo fare.
La sola cosa che poi Zio Gigi non mandò giù era che diventai comunista, peccato che l'ictus non ci ha permesso di parlarne, da bravo filosofo avrebbe reso il dialogo molto interessante.
Amore, curiosità e fantasia, musica, cultura, mescolati in parti uguali perchè non si possono dosare e ogni esagerazione ora dell'uno, ora dell'altro, è assolutamente necessaria per capire come mai il pensiero grande è il mio Ippogrifo.
Ma il vero ingrediente magico, quello che catalizza gli altri quattro credo sia qui, a Sesto ed è nella bellezza e nella maestosità delle montagne, nella pace dei prati, nella magia dei boschi di larice.
Guardavo ieri la Croda dei Toni, la mia montagna "simbolo" di Sesto, la sua eleganza e la sua bellezza cubista così forte quando la si osserva dopo la fatica della salita al rifugio Comici.
Guardo dal balcone i Tre Scarperi e la Croda Rossa e ogni mattina faccio il pieno di grandiosità, quelle montagne mi dicono che si può resistere alle frane e alle intemperie e che loro sono più durature delle nuvole e dei lampi. Più silenziose del tuono e del vento raccontano di rimbalzo le storie di caccia di mio padre da queste parti la sua leadership semplice senza violenza, di mia madre che mi ha confessato quanto lei fosse felice quassù.
Troppo grandi per appartenere a uno soltanto, sono l'esempio della condivisione della bellezza e della necessità di volersi bene in montagna perchè chi pensa di fare da solo rischia la vita e spesso la perde.
Sono state contese a fucilate e non hanno ceduto più di 250 metri ora agli uni e ora agli altri per dire che i confini non esistono, ti entrano negli occhi e nel cuore per farti capire che è possibile fare qualcosa di grande restando piccoli, che "grande" e "piccolo" sono categorie senza senso perchè loro fanno parte dei miliardi di universi rispetto ai quali sono granelli di polvere errante nei millenni.
Queste montagne mi hanno stregato, è colpa loro se il mio pensiero si apre ai loro spazi quando affronto un tema, è colpa loro se sono più a mio agio in orizzonti temporali più lunghi dell'istante sono loro che mi ricordano il legame di tutto con tutto che mi spinge a vedere il nesso, il senso della vita.
Chi mi detesta perchè penso "grande", mi trova arrogante, egoista, saccente e pensa che lo faccia per potere e per vanagloria, forse proiettando su di me la reale loro meschinità perchè è esattamente il contrario.
Quei cinque ingredienti non ammettono il pensiero "io", obbligano al "noi": l'amore implica l'altro, come la musica che esce da noi per andare al mondo, la fantasia ci lascia per vagare in spazi più grandi che nessun singolo può contenere e il sapere è ciò che ci rende consapevoli di noi rispetto altri e correggerei Cartesio in "Cogito ergo sumus".
La leaderhip implica la guida PER gli altri ed è un dono pesante per chi lo riceve in sorte: solo chi non lo è pensa che il leader usi gli altri al proprio scopo mentre usa sé stesso per un fine altrui che ha fatto proprio.
C'è "pensiero noi" quando mia madre condivideva la polenta appena fatta con le vicine di casa tanto quanto ce n'è in Alberto che invece di fare lezioni di piano per campare ha voluto fare una scuola perchè quante più persone possibili vengano messe in grado di amare la musica.
C'è "pensiero noi" quando metto fiori al balcone mentre il "pensiero io" li chiuderebbe in casa, così come c'è nell'avere amici a cena.
E' stato un "Pensiero noi" la spinta decisiva ad avviare il progetto ONDE: potevo tenere per me, solo per me, ciò che sapevo? E ci fu, eccome se ci fu, chi me lo propose, chi voleva fare "l'affare", chi, dopo la visita mattutina in chiesa, non voleva una rete pubblica, gratuita e aperta.
L'impegno nella Scuola di Musica, il Master, la Cooperativa degli artisti, il progetto dell'orchestra internaizonale e quello della musica per tutti i bambini delle elementari, sono tutte conseguenza del "pensiero noi": è anche colpa sua se il mio studio del violoncello è così lento e faticoso, quando mi sembra di aver fatto pochi progressi, penso a quante, tante, altre cose ho fatto nel frattempo, sacrificando loro buona parte del mio "tempo io".
Ma c'è un tempo "io"? Non ho più la risposta e il violoncello me ne fa comprendere l'insensateza insita nella domanda. Il mio tempo è un tutt'uno con quello del mondo in cui vivo e vibro con esso.
E' religioso il "pensiero noi" anche in chi non crede in quel certo dio o nella sua liturgia ma sente che tutto ciò che esiste non lo è per un individuo solo, è stata "noi" la lezione del prof. Zanella che si è battuto perchè la tecnologia portase sviluppo sociale in Sardegna e sono "noi" le ricette antiche che Marina riproduce perchè non vadano perdute.
Non me la sento di accusare le montagne di nessuna colpa, ma è indubbio che loro sono inconsapevoli artefici del mio modo di essere e di agire.
Non è né bene, né male, è semplicemente necessario. Zio Gigi avrebbe parlato di "Imperativo Categorico kantiano", mio padre di "senso del dovere", io non ho etichette da appiccicare, mi basta già il finale dell' ultimo quartetto di Beethoven: Es muss sein!
A vent'anni ero pieno di certezze, ora molto meno, ma più passa il tempo che mi avvicina alla risposta definitiva so che tutto ha avuto un senso, non per me ma con il mio esserci.
In fondo condividere i miei pensieri qui è parte della storia.
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