Mi piacciono le parole, raccontano storie, origini, la maggior parte ha fatto una lunga strada.
Il mio mitico professore di greco diceva che le parole sono come gli attrezzi: servono a costruire pensieri e frasi e come gli attrezzi alcune si logorano con l'uso altre, perdono la loro funzione, qualcuna rimane solida nel tempo.
Lui ci insegnava come vino derivasse da "voinos" poi con "la caduta del digamma/vau, diventasse "oinos" da cui enotria ed enologo" mentre un pezzo della parola restava con la v, che nel dialetto diventa "vin" in veneto, "vi" nel bresciano, "i" nella bassa, e poi ci si ferma perchè altrimenti non beviamo niente.
Nascono parole nuove orrende nel linguaggio del business come "fittare" che non c'entra con le agenzie immobiliari ma è uno storpio del termine inglese "to fit" che vuol dire "ci sta dentro a misura" e ho sentito persone che dicevano che il nuovo modello "non fitta con il mercato", e poi tutte le parole delle nuove generazioni come "strabello", "uazzappami" per non dire dei nomi delle persone che si consumano tanto velocemente e si contraggono in Ste, Adri, Cri, sapendo che però si consumeranno velocemente come le parole che li hanno preceduti.
"Una cannonata", usata nel primo dopoguerra è una parola che non si usa più per esprimere la grandiosità di un evento, "Paninaro e Sanbabilino", passati gli anni della contestazione, sono parole usurate in fretta come un coltello tutto sbeccato.
Le parole viaggiano attraverso i confini e si modificano con le intemperie o con le piogge dei diversi paesi o rimangono come lasciti delle diverse dominazioni, come le decorazioni delle case o i monumenti.
Ecco che Caesar (pronunciato pare Kaissar dagli antichi latini) diventa Kaiser al nord o kZar all'est e Ciao deriva da s'ciao, "schiavo" di cui rimane ancora in Alto Adige la forma "Servus" che si usa per salutare una persona (devo ancora scoprire quanto amica o quanto formale).
Ecco il bresciano "articioc" per definire i carciofi come in francese o le arance dette "portugai" forse perchè venivano da quel paese e qualche anziano ancora si riferisce al divano chiamandolo "ottomana", con lo sguardo interrogativo del nipote che non capisce che sono tutte parole che raccontano di invasioni subite e tentate ai danni altrui.
In Calabria ho scoperto la lingua arbresc (Arbreshe più correttamente) di origine albanese e mi spiace molto di non aver passato del tempo con qualcuno che me la parlasse per catturare radici comuni e parole-ponte tra le due coste del mare.
Con gli amici sestesi vado a caccia di parole che affiorano dalla mia infanzia e rimaste nel linguaggio di mia madre per cui secondo la definizione del prof. Marcolini, quelle parole sono un pezzo della mia lingua-madre.
Ieri ho scoperto "Passt" e la sua variante "Passt shon", ovvero "perfetto, su misura" e, con la correzione di shon "non è perfetto ma va bene viste le circostanze", e poi ho ricostruito la storia del mio orsacchiotto il "bérile", da bar con la dieresi in tedesco (e bear in inglese) e l'aggiunta del diminutivo -ile: si vede che gli orsi loro erano diversi dall'ursus latino e dal "arktos" greco poi diventato arkos.
In dialetto il mio "berile" è diventato 'sperl (lo scrivo come si dice con la elle appena annunciata con la lingua parcheggiata sul palato): come ci si arriva? Der Bar (sostantivo maschile) diventa neutro con il vezzeggiativo e diventa Das Barile (la a ha la dieresi e si pronuncia e, non è un barile nel senso della botte), nel parlare le prime due lettere dell'articolo si perdono e resta solo la "s", la "b" si pronuncia "p", le due vocali del vezzeggiativo si riassumono in quella "l" e il mio berile è diventato sperl. Magia!
Ho anche soperto come veniamo chiamati noi italiani con un termine analogo a "crucchi" quando noi parliamo dei tedeschi e anche degli altoatesini, con quella valenza negativa che c'è quando ci si riferisce al meridionale come "terrone".
Siamo i "Walschen" che in tedesco sono i "Welshen" e qui ho trovato tutto il viaggio della parola che dice in sostanza "gente che parla un'altra lingua", come i gallesi per gli inglesi (welsh) come i valloni belgi per i fiamminghi (Wals) e gli svizzeri francesi per gli svizzeri tedeschi (Welschschweitz).
Adesso so che se un amico mi dice che sono un "walsh" sorrido e gli dico che lo sono quanto lui è "crucco", se me lo dice tra i denti un estraneo, so che mi devo incazzare.
Dato che il maltempo a Sesto viene spesso dal passo di Montecroce che ci separa dal veneto c'è un detto che recita "dal walsh anche il vento è cattivo e porta brutto tempo" e dobbiamo farcene una ragione: siamo tutti i "terroni" di qualcun altro.
Con la mia maestra Kiki abbiamo ragionato su una traduzione sbagliata della pubblicità del nuovo impianto di risalita lo "Stiergarten" tradotto come "orto del toro" (va bene, perchè qui negli orti ci sono i fiori mentre per noi il giardino non ha zucchine e insalata) il manifesto in tedesco dice "Der Stier ist los!", letteralmente "il toro è libero" (loose in inglese, lasco in italiano marinaresco) in realtà è una frase idiomatica che significa che accadranno cose strabilianti.
A fronte di questo concetto metaforico molto ricco, più vicino a Pamplona e San Sebastian che ai prati dell'alpeggio sestese, la traduzione pubblicitaria in italiano è proprio fiacca, non la ricordo nemmeno esattamente, ma è una cosa del tipo "Il toro è al via": manco giocasse a Monopoli.
Per l'aperitivo di domani mi sono preparato un'altra piccola collezione di parole della mia infanzia da risistemare, altre le troveremo chiacchierando perchè, come nel quadro di Escher, anche le chiacchiere sono fatte di parole.
Fantastico leggere le tue riflessioni sulla lingua alle 6 di mattina tra le colline della Toscana!
Scritto da: Fiammetta | 08/05/2014 a 07:11